L'odio razziale
Nei "Cani del Sinai" (De Donato editore) Fortini fa, nel corpo del suo discorso, personale e non molto limpido, sulla guerra tra Israele e gli arabi, una osservazione: nel futuro il razzismo aumenterà di intensità e di frequenza, anziché diminuire: e ciò a causa della pressione di un potere, che essendo meno visibile e personale, non sarà però meno schiacciante: anzi, sarà così schiacciante, da frantumare e polverizzare la collettività che fa da tessuto connettivo al processo di produzione e consumo; tale polverizzazione della società in tante forme diverse, ugualmente oppresse, farà appunto moltiplicare il razzismo, perché tutte le piccole parti separate, in cui si frantumerà il mondo schiacciato, si odieranno razzialmente fra loro.
É un odio razziale difficile da immaginare.
É, in generale, difficile, anche adesso che vige con tanto furore, e noi ne siamo appena sopravvissuti, immaginare che cosa sia l'odio razziale. Esso è, in realtà, costituito da molti odi razziali, differenti e qualche volta anche contraddittori.
C'è un primo livello storico - che è rimasto quello popolare - in cui l'odio razziale è magico: e, come tale, sopravvive in ognuno di noi (che, nei nostri strati profondi, rimaniamo preistorici e popolari). Questo tipo di odio razziale è l'unico che sia abbastanza possibile immaginare, e che sia anche, in qualche modo, giustificabile, dato che precede la fase della ragione.
Le nostre "antipatie" per certi tipi di persone, il fastidio violento che ci danno certi "corpi", sono archetipi di un tale odio razziale, che proviamo, in modo sia pure monco o embrionale, e che cade quindi sotto il dominio della nostra esperienza.
Tutto il restante quadro dell'odio razziale fa parte di un fondo sociale, che una persona dotata dell'uso della ragione stenta a credere realmente esistente. In questo momento storico, mi sembra che l'odio razziale sia l'odio che prova un borghese verso un contadino: ossia l'odio che prova un uomo integrato in un tipo di civiltà moderna e cittadina, contro un uomo che rappresenta un tipo precedente di civiltà, che ancora minaccia la presenza dell'attuale: dimostrando fisicamente che un regresso è sempre possibile (socialmente). Ecco perché si odiano razzialmente i negri, in quanto poveri, e i poveri, in quanto, inevitabilmente, diversi di pelle, essendo addetti ad antichi lavori che comportano necessariamente l'aria aperta e il sole (l'effetto del sole sulla pelle sembra avere un valore decisivo nell'odio razziale di chi vive in case civili, e, se lavora la campagna, lo fa da padrone, o industrialmente).
Negri, sudeuropei, banditi sardi, arabi, andalusi, ecc...: hanno tutti in comune la colpa di avere i visi bruciati dal sole contadino, dal sole delle epoche antiche.
Ma, per tornare a Fortini, e alla sua osservazione sulla polverizzazione della società dovuta al potere e alla moltiplicazione dei razzismi, forse, nei nostri giorni - e proprio in questi ultimi giorni - qualcosa è anticipatamente caduto nel cerchio della nostra esperienza diretta.
Si è verificata, infatti, in certi strati che si ritenevano molto ben stabilizzati della società, una polverizzazione dovuta al movimento sovversivo degli studenti: si tratta di strati molto particolari: gli strati cioè delle élites intellettuali (si sa, estremamente sensibili e vulnerabili).
La pressione esercitata da un potere fino a quel punto non solo inesistente ma addirittura inimmaginabile, quello dei giovani, ha polverizzato questi strati: e ne è nata, nei vari frammenti di tale polverizzazione, una sorta di odio razziale reciproco.
É nata insomma una divisione terroristica tra "giusti" e "reprobi": che non è soltanto moralistica, e ha quindi perduto ogni rito e fair- play. No, verso il "reprobo", il giusto sente un'antipatia fisica così forte, che, benché magari suo conoscente da anni (e, fino al giorno prima, appartenente a una stessa generica cerchia sociale con analoghe idee politiche), sente quasi una sorta di repugnanza; non gli stringe la mano; lo evita; gli gira al largo; gli prepara intorno una specie di clima da linciaggio.
Lo si è visto, per esempio, recentemente, nel mondo letterario (il povero, squallido mondo letterario italiano), in occasione dei Premi: la pressione studentesca, mutuata da un certo fascismo di sinistra, ha esercitato una forte pressione (sociale e di coscienza) sulle élites culturali italiane, polverizzandole e gettandole nel caos.
Ciascuno si è trovato (come per caso, ben lontano ancora da un esauriente esame di coscienza) in una parcella alla deriva di questo caos: e ha provato un odio inaudito, una specie di schifo fisico, per i suoi avversari. Insomma la pressione di un tipo di potere nuovo, senza decisiva importanza, ancora, per il "sistema", ma assai importante, invece, per le coscienze, ha allargato il quadro dell'odio razziale verso i tipi di odio razziale nuovo.
La grande sorpresa, in tutto questo, è che il potere "schiacciante" non sia il potere costituito. Tuttavia io credo che il potere degli studenti - così come si è istituito malgrado loro - rientri nella problematica del potere tout court.
I sociologi avevano fino a oggi previsto per il futuro (né potevano far altro) soltanto delle difficoltà tecniche: vediamo invece, attraverso i giovani, che le difficoltà del futuro non sono affatto difficoltà tecniche, ma politiche.
Per molti anni siamo stati incantati dalla sirena della tecnica, sia come problema attuale, sia come grande incognita del futuro (problemi tecnici del dormire, del mangiare, dell'abitare, dell'occupare il tempo libero, dell'usare i motori, del fare figli, del divenir vecchi ecc. ecc.), e abbiamo stupidamente creduto che tali problemi tecnici si dovessero risolvere sul piano della tecnica.
La nuova generazione di ventenni - che, nelle nazioni "avanzate", vive per la prima volta, interamente, al di qua dello spartiacque; vive, cioè, nel nostro futuro - come primo atto ha voluto dimostrarci che le soluzioni dei problemi tecnici, anche nel futuro, sono politiche.
I bravi amministratori, che, tormentati, per il momento, dalle opposizioni, si sfogavano felici a pensare al futuro come un puro campo di esperti, sono rimasti con un palmo di naso. E così gli intellettuali, che non si aspettavano che il lor piccolo potere sarebbe stato messo in discussione così presto, e con tanta inaudita maleducazione e violenza (essi, che si immaginavano i nuovi ventenni come tanti primi della classe, integrati, affabili, efficienti, perbene). Ma non è un caso che il primo aspetto con cui i giovani si presentano, sia l'aspetto del potere; nascente da una coscienza aggressiva dei propri diritti.
E intendo dire proprio potere politico, oltre che culturale, di coscienza e d'opinione: se non fosse stato politico certamente la sua capacità di "pressione" non sarebbe stata così violenta da scatenare tra i loro poveri padri più vulnerabili - gli intellettuali - questo furente, feroce odio reciproco di bestie in gabbia.
Tempo n. 34 a. XXX, 20 agosto 1968
in Il caos, Garzanti